I met an animal
He cheats
A brutal creature moves
Just like a man he smiles
And is dressed in white and gold
The colour of the sweets
That dreams are made of gold
The colour of
Deceits that take my life
Mdina (Malta), mar '12.
Blackbird Fly + Lomography X-Pro Chrome 100
scansione da negativo
Nel
caso in cui non ve ne foste accorti, fa di nuovo freddo. Basta con le
domeniche al mare, si ritorna a poltrire rintanati in casa tra plaid e
serie tv. Del resto sembra che nel fine settimana il relax sia
d’obbligo, ma per quanto riguarda me e una manciata di altre persone, lo
si vorrebbe fuggire con tutte le proprie forze. We are young, del
resto. Cercando qualcosa da fare, scopro che Wikipedia ha da poco
riacceso le luci e un caro amico ha deciso di trasferirsi in Bretagna.
Cosa faranno da quelle parti per vincere la noia? A quanto pare Rennes,
capoluogo bretone, ha dato alla luce un paio di cose decisamente
interessanti nell’ultimo anno. La prima è questa meraviglia dipinta su un palazzo di sei piani dal marchigiano Blu.
La seconda sono i neonati Juveniles, trio piccatamente neworderiano lanciato dalla Maison Kitsuné già nota per aver pubblicato Is Tropical e Two Door Cinema Club. We Are Young, primo singolo del trio francese
in uscita il 24 ottobre, parte con un crescendo scandito dal charleston
e accompagnato da tastiere prettamente anni 80; la voce è calda
proprio come quella di Morrissey e le atmosfere in pieno stile new wave
a cavallo tra Depeche Mode e New Order sono attualizzate da punte
elettroniche alla Starfucker.
Oggi parleremo degli Hospitality.
Fidatevi, ne varrà la pena. A quanto pare in Italia non ne ha scritto
ancora nessuno, ma, ho come la sensazione che lo faranno presto.
Il quartetto, formato da Brian Betancourt (già bassista dei White Rabbits),
Nathan Michel, Kyle Olson e Amber Papini nasce a New York circa
quattro anni fa e ha alle spalle un EP omonimo già ricco di pezzi catchy come Betty Wang che hanno fatto innamorare quelli di Stereogum.
Da pochissimo hanno firmato con Merge Records, che il prossimo 2012 ci regalerà il loro primo album.
Per adesso sono in tour negli Stati Uniti con Rural Alberta Advantage, Rosebuds e Wild Flag, non possiamo che sperare in una data più vicina.
Un po' in ritardo, ma eccovi finalmente le foto del Neapolis Festival 2011!
Se vi state chiedendo (certo, anche se non lo state facendo) il perchè del loro colore buffo è perchè ho usato un rullino scaduto da qualche anno.
Blackbird, Fly + Konica Super XG 200ASA scad. 2005.
scansione da negativo
Soffermate mai il vostro sguardo sullo specchietto retrovisore mentre siete in coda al semaforo? A me capita spessissimo. Se lo faceste anche voi vi rendereste conto della quantità smisurata di facce buffe che fa la gente quando pensa che nessuno la stia guardando; di come alcuni gesticolino in maniera concitata mentre sono al telefono, di come altri abbiano uno sguardo perso nel vuoto quando i minuti trascorsi dalla sveglia sono ben pochi.
C’è chi torna nel mondo reale quando a passargli accanto è la ragazza che distribuisce i giornali gratuiti, chi si chiude a riccio quando invece è l’extracomunitario che vende pacchi di fazzoletti a passare, mentre chi -come me- lo saluta e si gode quotidianamente un “come stai?” e un “buona giornata” di quelli sentiti, che aprono il cuore.
Da un lato un adulto bestemmiante per il traffico, dall’altro un adolescente con le cuffie ben piantate nelle orecchie, due mondi separati all’interno dello stesso abitacolo.
E poi, i cliché, li avete mai notati? Il vecchio col cappello, l’adolescente che pulisce con cura le sue cavità nasali, la donna dai movimenti nervosi e la sigaretta stretta tra le dita.
Torniamo a noi: perché se scrivere di musica è come ballare di architettura, allora davanti ai vostri occhi avete un vero e proprio tronco d’albero. Per fortuna, però, la musica a volte parla da sola, così come i volti riflessi nello specchietto raccontano se stessi.
Quella di Dustin O’Halloran (ve lo ricordate, nei Devics con Sara Lov?) basta a se stessa, si racconta, ci racconta storie, è una non-colonna sonora che starebbe bene cucita addosso a un qualsiasi film drammatico. Certo, non è musica da ascoltare andando al mare, ma un’occasione in questa primavera che finalmente si è decisa ad arrivare gliela si deve concedere. Soprattutto poi se ad accompagnarci lungo le nove tracce di Lumiere ci sono persino Peter Broderick e Adam Wiltzie e non è il caso di attendere climi consoni e primi freddi.
Già che ci siete, ma soprattutto se vivete in Sicilia o in Puglia o anche solo se dovete passarci ricordatevi che Dustin O’Halloran sarà a Palermo il 16 giugno e al Locus Festival di Locorotondo (BA) il 17 luglio. Nell’attesa, godetevi We Move Lightly.
Giù di morale? Orsù! Le scuole di pensiero sono fondalmente due: c’è chi opta per il già rodato chiodo-scaccia-chiodo musica triste per morali tristi e chi si dà -indovinate un po’ per chi parteggio?- a motivetti stupidi e refrain allegri. Per dovere di cronaca va citata la terza opzione, quella omeopatica: shopping, sesso, cibo. Ma qui parliamo di musica. Eh. Torniamo a noi, c’è un video che in una manciata di giorni ha impazzato su Vimeo, sollevando gli animi di mezzo mondo (almeno 42mila); Happy Camper è il nuovo progetto di Job Roggeveen (El Pino and the Volunteers), quattordici pezzi per undici cantanti racchiusi in un album omonimo che dovete ascoltare a tutti i costi (in streaming qui).
Manfred, la star del video, è un coso tondo buffo e pelosetto, un incrocio tra Humpty Dumpty e Alf. La voce, in questo caso, è quella di Bouke Zoete, leader dei Kevin Costners (consigliatissimi). Beh? Che state aspettando? Smile up your life.
Capita, no?, di affidarsi completamente a qualcuno, di aver unicamente voglia di abdicare ad un qualsivoglia potere decisionale e abbandonarsi alla -si spera- saggezza e intraprendenza altrui. La musica è piena zeppa di esempi in merito: Take Me Out, Get Me Away From Here I’m Dying, Take My Breath Away… (pezzoni, eh?)
Nel nostro caso è la voce calda di Alaina Moore a esortarci, Take Me Somewhere canta la signora Tennis. E così è stato: otto lunghi mesi trascorsi in barca a vela hanno portato alla nascita dell’album più lollipop d’inizio anno. Atmosfere prettamente sixties zeppe di uuuuh, oooohh e shalalala, ritmi incalzanti e riff tropicali che mettono il sorriso sulle labbra, infondono rilassatezza e quasi obbligano a tenere il tempo. Take me out baby, I want to go sail tonight. I can see the ocean floor in the pale moon light: inizia così, cullandoci, la title-track Cape Dory. E’ infatti la nota casa produttrice di yacht a dare il nome all’imbarcazione e di conseguenza all’album. I coniugi Tennis ci fanno viaggiare lungo tutta la costa orientale degli States, dal Maryland alla Florida, passando per il South Carolina, attraccando a Bimini Bay e facendo una tappa a Baltimore, allietati per tutta la durata del viaggio da piccole gemme pop dalla durata quasi punk. Pigeon è semplicemente meravigliosa, mentre Seafarer ha come unica pecca un inizio con annesso coretto tipicamente baustelliano (che per fortuna dura poco).
Insomma: lasciate perdere se soffrite il mal di mare. Altrimenti, beh… godetevi il viaggio.
Vi sarà capitato di essere fermati per strada, no? Magari da stranieri in terra straniera, per sentirvi poi sottoporre sistematicamente le più disparate richieste di indicazioni. Non lo si può negare: tutto ciò solletica l’ego, ci rende fieri del non sembrare semplici turisti, dell’apparire magicamente autoctoni. Ma… A volte, mormorare un non siamo di qui ha un qualcosa di stranamente catartico. Smarcarsi da domande scomode, svicolarsi da richieste di informazioni troppo complicate. Ci si dipinge sulle labbra un sorriso tra l’imbarazzato e il sollevato e si continua per la propria strada. Cammina cammina, ci si imbatte in un balcone coperto d’edera, disegnato in bianco e nero da Alessandro Baronciani: è In ogni momento, cinque tracce cariche di poesia, suoni pieni e zeta romagnole. Ed è proprio la title-track ad aprire le danze, coi suoni sporchi, pieni di distorsioni e riverberi che calzano a pennello col testo tormentato e disilluso. Prima o poi parte con la batteria in quattro quarti, semplice, ma efficace e colpisce con un ritornello da hit, per poi lanciarsi in controtempi e battute dispari, con richiami prettamente prog. All’intenso strumentale Mancante segue Non siamo di qui, già titolo del precedente lavoro dei Cosmetic, pezzo dall’atmosfera dreamy e dalle melodie malinconiche. Muri di suono, riff di chitarre e tanto delay ci accompagnano fino alla fine del disco che si chiude con Thomas, basso persistente e armonici acidi, un po’ U2 e un po’ Verdena. L’EP è in free download su latempesta.org, datevi una mossa.
Allora, capiamoci: farmi vedere un video made in Japan mentre sono alle prese con Murakami è quantomeno da “ti piace vincere facile?”.
Non solo. È propedeutico alla lettura di questo take ricordare che la sottoscritta è una degna figlia del junk food anni ‘80. Pertanto, come potreiiii (non) amareeee ioooo una sequenza in cui una tizia si butta su un divano, sbevazza CocaCola™, mangia patatine e trova anche il tempo per spupazzare un gattone rosso rosso da fare invidia a Torakiki?
Parlo di Satomi Matsuzaki che nel video improvvisa un balletto vestita da struzzo -manco le Las Ketchup in Aserejè- e sfoggia un trucco degno di Jem e le Holograms; beh, lì mi scatta l’amore.
Non vi dico altro, Super Duper Rescue Heads dovete ascoltarvela da soli.
Io preparo i pop corn.
(Ah, il vinile rosa shocking di Deerhoof vs. Evil sarà vostro a partire dal 25 gennaio, portate ancora un po’ di pazienza. In alternativa, c’è sempre il pre-order via Polyvinyl con tanto di mp3 al seguito)
In questo preciso momento a Portland, Oregon sta nevicando.
Quindi basta con odiose canzoncine natalizie e vin brûlé per scaldare gli animi, non è più tempo. Ci sono gli Starfucker ora.
Ma come, sul serio non li conoscete? Beh, dovreste. Davvero.
Per vostra fortuna, oltre ad aggiornarvi sulle condizioni meteo, sono anche foriera di buone notizie: questo è esattamente il momento buono per scoprirli; i quattro infreddoliti inhabitants del Beaver State hanno appena tirato fuori ben DUE fantastici singoli.
(Uh, conoscevate già gli STRFKR? Ma allora siete proprio fighi!)
Non lasciatevi fuorviare dal titolo, Bury Us Alive non ha nulla di nemmeno lontanamente malinconico, anzi. È un motivetto electro-catchy, da ascoltare mentre viaggiate in macchina o da ballare a tutto volume.
Comunque sia, qui si è in trepidante attesa che Reptilians veda la luce il prossimo 8 marzo.
Nel frattempo, se proprio dovete, seppelliteci vivi. Sì, ma sotto un mucchio di musica così.
Ho sempre odiato le classifiche. (Si può amare Alta Fedeltà, ma non sopportare le Top10?)
Mi sono sempre chiesta quali fossero il mio colore, il mio gruppo, il mio gusto di gelato preferiti.
Non ho mai ottenuto una risposta sola, chiara e precisa; bensì un'infinità di primi classificati.
Questa sera mi sono superata.
Ho tirato fuori la mia prima top10.
Mixing berries, mixing words, mixing languages: et voilà! come creare un cocktail meraviglioso in pochi semplici passi. A quanto pare per Honeybird & The Birdies mixer e shaker non hanno assolutamente segreti. Il loro album d’esordio, appena sfornato dal trio italoamericano, è un viaggio colorato, al punto che nemmeno il guardare in un caleidoscopio renderebbe meglio l’idea. Quindici brani in qualsiasi lingua: inglese, spagnolo, francese, portoghese e qualcosa di non meglio specificato che, a leggerlo, sembra uscito da un libretto di istruzioni dell’Ikea, ma chissà. Un numero imprecisato di generi musicali da cui attingere, strumenti inusuali da riportare alla luce, tante storie da raccontare. Un mix perfetto, quello che honeybird, p-birdie e ginobird ci servono facendoci fare un giro attorno al mondo. Alfa e omega? Macché, sono B+ e B- a scandire inizio e fine dell’album.
Le dieci corde del charango danno una nota sempre allegra alle tante piccole storie nonsense: ci sono api regine (Quemby The Queen Bee), puzzole idiote (La Bête Mouffette) e ottimi consigli da seguire: Don’t trust the butcher, he wants to sell you more meat than you’ll ever eat; accompagnati da ritmi un po’ funky, un po’ bossanova e, all’occorrenza, zumpappà.
È impossibile fare a meno di notare Tommy, piccola perla da riascoltare all’infinito, e la spensieratezza estrema che Pequenino Frango riesce ad infondere.
Detto ciò, remember: (honey)bird is the word.
Immaginate di trovarvi davanti qualcuno di estremamente bello: vedete chiaramente le sue labbra muoversi, potrebbe stare dicendo qualsiasi cosa, ma siete così presi dalla meravigliosità emanata che nulla scalfirebbe la vostra espressione di estrema e idiota beatitudine, nemmeno l’idea di accendere l’audio e capire cosa vi viene detto.
Beh, melensità a parte, non ho la benché minima idea di cosa Shugo Tokumaru dica in Lahaha, ma who cares? è un pezzo totalmente giocattoloso, happyindie fino all’ultima nota; quello che -probabilmente solo nel mio caso- è l’ideale per rallegrare giornate uggiose di serie B saltellando per la stanza mentre ci si infila i jeans (!).
Per rimanere in tema Takes e per chi non lo conoscesse ancora sappiate che è stato in tour coi Magnetic Fields, ha suonato con Beirut e The National e che… Port Entropy sarà a vostra disposizione a partire dal 15 febbraio! Grazie, Polyvinyl.
I know a spell that would you make help: write about love, it could be in any tense, but it must make sense.
Una settimana di pioggia ininterrotta ha sommerso completamente il mio buonumore, quindi, perché non cogliere al volo il consiglio? Scriviamo d’amore. Anzi, scriviamo di chi scrive d’amore, che magari viene pure meglio.
Sono passati quattro anni, ma aspettare -a volte- paga: Write About Love è roba da groppo in gola e stomaco upsidedown. Un po’ lamentous e un po’ miel pop(s), scorre liscio tranne un piccolo inciampo sulla traccia numero tre (ma perché?).
I bei tempi di Isobell Campbell sono ormai andati, ma Sarah, Stuart, Stevie e Mick se la cavano alla grande, coadiuvati nell’impresa in Write About Love, primo -meraviglioso- omonimo singolo dell’album, dalla bella Carey Mulligan (chi? ma come, non avete visto An Education?) e in Little Lou, Ugly Jack, Prophet John (ci piacciono i titoli semplici) da nientepopodimenoche Norah Jones! tant’è che il pezzo suona praticamente come fosse suo.
L’a-side del disco è meravigliosa, Sarah Martin ci accoglie sorridente prendendoci per mano con I Didn’t See It Coming (Make me dance, I want to surrender / Your familiar arms, I remember) lasciando poi il passo a Stuart Murdoch fin quasi alla fine dell’album. Come On Sister dà la carica, ritornello catchy e rime facili, per non parlare del battere incalzante sul charleston e dei giri di basso ben presenti di I Want The World To Stop. Le tracce scorrono veloci in un turbinio di suoni prettamente sixties fino a chiudere in bellezza cullati da Stuart e Mick con Sunday’s Pretty Icons (The sea cries of loves of girls / The sea cries of boys / The storm, we are the both of us / Too close to ever love)
Insomma, se speravate in un ritorno che superasse The Life Pursuit, beh, rimarrete delusi. Ma ascoltandolo con occhi da innamorati, non riuscirete più a farne a meno.
Repetita iuvant, e per gli of Montreal è proprio il caso di dirlo. Il gruppo di Barnes e soci arriva, dopo una complessa evoluzione lunga tredici anni, al decimo disco della serie. E che disco! Si spazia dal funky al R’n’B, spingendosi attraverso sonorità nettamente eighties ed ammiccando ai più svariati generi. Certo, non è più tempo per le melodie pacate ed i richiami folk-pop-60s in Liverpool dei primi album, né della drum machine onnipresente o dell’elettronica dei primi anni zero, ma che importa? False Priest è un album che racchiude tutto, che basta a se stesso. Immaginatevi attorniati da una serie di porte che, una volta aperte, rivelano scenari completamente differenti; Ecco, Barnes fa proprio questo: racconta storie, nonsense o meno che siano. Si parte con I Feel Ya’ Strutter, sorriso sulle labbra, batteria incalzante e ritornello che non si scolla più di dosso, passando per falsetti e acidità funky fino ad arrivare al singolo Coquet Coquette, che eccelle nell’arduo compito di apripista del disco. Avanti ancora, è la volta della collaborazione con la bella Janelle Monáe, per Enemy Gene, a mio avviso il pezzo meglio riuscito dei tredici. La sezione ritmica si fa più presente, si affacciano elettronica e giri di basso sempre più marcati, mentre i testi si fanno più carichi di allusioni: ecco Sex Karma, con Solange Knowles (già, proprio la sorella di Beyoncè). Si chiude in bellezza con You Do Mutilate? che suona come fossero ben tre pezzi diversi. Insomma, questa volta la band di Athens ha dato il meglio di sé: certo una sezione ritmica più presente e varia avrebbe garantito ai pezzi maggior groove e carattere, ma non è il caso di lamentarsi troppo.
Dieci dischi e non sentirli? Macché, sentiteli bene.
Mi imbatto nei Telekinesis con una dozzina di mesi di ritardo, incappando nel video del loro ultimo singolo: Dirty Thing. Le immagini – per lo più in stop motion – pregne dei colori acidi e della vignettatura degni della più classica delle Lomo, scorrono catapultandomi in un susseguirsi di scorci metropolitani, paesaggi sconfinati, viaggi on the road, fuochi d’artificio e reflex ultra vintage. Insomma, nulla che la sottoscritta non adori. Come non prenderli subito a cuore? Il plurale per i Telekinesis vale, in realtà, solo in concerto. Su disco invece è quell’ometto buffo di Michael Benjamin Lerner a sbrigarsela: un novello indieman tuttofare che registra col suo Mac, canta, batte sulla chitarra, ricrea un’intera sezione ritmica, regalandoci sonorità che ricordano i primi Soundtrack of our Lives, ma che non si discostano poi nemmeno tanto da quelle dei Band of Horses. Tutto questo sotto l’occhio vigile del Death Cab Chris Walla, produttore dell’album. D’altro canto, l’americana Merge Records, con in squadra Arcade Fire, Caribou, Spoon e Teenage Fanclub non poteva mica deluderci, no? Restando in tema di scoperte interessanti, manca poco più di un mese all’uscita – su supporto fisico – di Parallel Seismic Conspiracies: EP con cinque pezzi tutti da godere tra cui due nuovi di zecca (Dirty Thing e Non-Toxic), due cover (The Drawback dei Warsaw/Joy Division e Game of Pricks dei Guided By Voices) e una nuova versione -band al seguito- di Calling All Doctors già presente sul debut album Telekinesis!, che preludono all’uscita del nuovo disco prevista per il 2011. Se non siete già corsi ad ascoltarli, tenete d’occhio le loro date in Italia: novembre è vicino!
Rock en Seine, ovvero, il festival del collant smagliato.
Altro giro, altra corsa. Approdo al Rock en Seine in pieno pomeriggio, allegra e pimpante. Il popolo del festival è riunito dinanzi la grande scene dove, immerso nel tiepido sole parigino, ascolta placidamente Paolo Nutini. Opto invece per il piccolo palco de l'industrie dove ad attendermi c’è Martina Topley Bird che sostituisce, ahimé, gli Ou Est Le Swimming Pool. L’ex voce di Tricky dà il meglio di sé, strizzata in un abito da sera rosso fuoco e accompagnata dal valido batterista che, all’occorrenza, si traveste da ninja e strimpella un ukulele.
Tocca quindi a Jónsi, che sale sul palco addobbato di nastri come un albero di Natale e regala un set inaspettatamente acustico, causa strumentazione bloccata da qualche parte in Portogallo. Lo abbandono dopo qualche pezzo perché lo stomaco richiede le mie attenzioni. Mi faccio strada attraverso una quantità spropositata di gente di ogni età e mi rendo conto che la quasi totalità delle ragazze indossa orrendi collant smagliati. Spendo qualche minuto a calcolare la probabilità con cui tutti quei collant possano essersi rovinati e mi arrendo al fatto che - evidentemente - sono delle vere modaiole, mentre io coi miei jeans neanche lontanamente sdruciti sono completamente out. Cerco quindi rifugio nella moltitudine di colori e odori dei banchetti di cucina creola, giapponese, libica, abissina, italiana (ma la pizza cotta in un furgone? parliamone), argentina e spagnola, vero punto forte del festival.
È la volta dei Queens of the Stone Age con un’esibizione degna della loro fama alla quale non mancano, inevitabilmente, No one knows e Go with the flow.
The time has come, scende il buio e si accendono le luci sul coinvolgente live degli LCD Soundsystem, che riempiono il palco e fanno saltare la folla, senza risparmiarsi nemmeno l’ultimo singolo Drunk Girls e la storica Daft Punk is Playing at my House. Riecheggiano lontane le note di Teardrop, cantata a sorpresa da Martina Topley Bird assieme ai Massive Attack. A questi ultimi preferisco il terzo palco, dove Jello Biafra - voce storica dei Dead Kennedys - cicciotto si dimena e fa facce buffe sul palco chiudendo immancabilmente con Holiday in Cambodia.
Volge quindi al termine la seconda giornata coi 2ManyDJ’s, che omaggiano i presenti LCD Soundsystem e QOTSA inserendo loro brani nel mix; passano poi con nonchalance dagli AC/DC a Mr.Oizo, ammiccando ai francesi Phoenix con la hit If I ever feel better e chiudendo in bellezza in una nuvola di coriandoli e luci con i Joy Division.
Arranco felice, dolorante e fuori moda verso la macchina, impaziente di godermi la terza giornata. Intanto, per stasera... love will tear us apart, again.
Live report di una giovane donna col mal di schiena.
Parigi, again.
Varco su quattro ruote le porte del meravigliosamente verde Domaine national de Saint-Cloud chiedendomi se il festival perfetto esista davvero.
Proseguo scollinando frettolosamente - ho davvero esagerato col ritardo - alla disperata ricerca di qualcuno che validi il mio biglietto (c’è da capirli, chi mai approda alle 22 nella giornata di apertura di un festival? Io, che arrivo in macchina fin qui dall’Italia).
Perdo, ahimè, le esibizioni di Band of Horses, Foals, Kooks, Black Rebel Motorcycle Club, invero anche di Skunk Anansie e Cypress Hill, ma di questi ultimi non sentirò la mancanza. Oltre al freddo pungente mi accolgono i Blink-182 con What’s my age again e subito torno sedicente sedicenne. Di lì a poco esplode anche il set del canadese DeadMau5, che dall’alto del palco col suo capoccione da topo sorprende piacevolmente e fa muovere i culi. E’ poi la volta degli Underworld: un mare sconfinato di gente che si agita entusiasta come Mr. Hyde sul palco, assorbiti in un vortice di colori, luci e suoni. Coinvolgono come sempre le note di Cowgirl, al punto che tra un everything everything ed un saltello mi si blocca la schiena. I tre britannici continuano a regalare un concerto coi fiocchi snocciolando, tra le altre, Scribble, King of Snake, Downpipe e la nuovissima Bird. La serata volge al termine, mi godo Born Slippy dolorante e seduta sul prato, circondata dagli sguardi attoniti e carichi di disapprovazione dei bambini intorno a me che nonostante l’ora tarda ed il volume alto resistono fieri, in piedi e saltellanti vicino alle loro mamme. Alla faccia mia.
Setlist del 17/06: 01. 15 Step 02. Bodysnatchers 03. All I Need 04. Lucky 05. Nude 06. Pyramid Song 07. Weird Fishes/Arpeggi 08. The Gloaming 09. Myxomatosis 10. Faust Arp (interrotta e poi ripresa) 11. Videotape 12. Optimistic 13. My Iron Lung 14. Reckoner 15. Everything In Its Right Place 16. Exit Music 17. Jigsaw Falling Into Place
encore #1: 18. Karma Police 19. There There 20. Bangers N’ Mash 21. Climbing Up The Walls 22. Street Spirit
encore #2: 23. You And Whose Army 24. Idioteque
Setlist del 18/06: 01. Reckoner 02. 15 Step 03. The National Anthem 04. All I Need 05. Nude 06. Airbag 07. The Gloaming 08. Dollars & Cents 09. Arpeggi 10. Faust Arp 11. How To Disappear Completely 12. Jigsaw Falling Into Place 13. A Wolf At The Door 14. Videotape 15. Everything In Its Right Place 16. Idioteque 17. Bodysnatchers
encore #1: 18. House Of Cards 19. There There 20. Bangers N’ Mash 21. Just 22. The Tourist
encore #2: 23. Go Slowly 24. 2+2=5 25. Paranoid Android
Per gentile concessione dei Bat for Lashes e del loro meraviglioso (sic.) bastone della pioggia, mi sono goduta il concerto che aspettavo da un'infinità di anni sotto al diluvio universale. K-way calcato fino agli occhi, in mezzo al fango, con mezz'ora di sonno alle spalle e un Krapp terrorizzato dall'aereo e pieno di dubbi esistenziali da consolare.
By the way, più felice di così non potevo proprio essere: ci ho messo appena undici anni, ma alla fine mi sono goduta Karma Police live. Ed e' stata la cosa piu' bella dell'universo.
(Lo sono state anche Exit Music e Street Spirit, Lucky e 15 Steps.... ma Karma Police, cazzo, Karma Police... !!!)
E poi... quant'è stato carino Thom a dare i risultati delle partite? ;)
Ottocento donne di Via Campesina, una delle più importanti organizzazioni al mondo di piccoli coltivatori, ha occupato un bosco di eucalipti nell’estremo Sud del Brasile. Lo scopo era abbatterli per sostituirli con piante native compatibili con l’ecosistema. La repressione ordinata da Yeda Crusius, governatrice del Río Grande do Sul, lo stato di Porto Alegre, è stata durissima. Nessuno deve toccare l’albero vampiro.
Almeno 50 militanti sono rimaste ferite dalle manganellate e dalle pallottole di gomma. Tutte le altre sono state rinchiuse in uno stadio. E’ la punta dell’Iceberg di uno dei conflitti coloniali e apparentemente puliti che si combattono in America latina, quello contro la colonizzazione da cellulosa. Se il conflitto per le cartiere tra Uruguay e Argentina ha infatti occupato le prime pagine dei giornali, quello sulla silenziosa occupazione di enormi estensioni di territorio dal Cile all’Uruguay, dall’Argentina al Brasile con alberi di eucalipto, da parte delle più grandi multinazionali della carta, avviene nel silenzio. Eppure tutti gli studi dimostrano la nocività dell’albero che consuma più acqua al mondo, che più ha bisogno di fertilizzanti chimici velenosi, e che intorno a lui per grandi estensioni impedisce qualunque altra coltivazione. E lo sfruttamento del quale, completamente meccanizzato, non crea e anzi distrugge posti di lavoro. L’azione delle donne di Via Campesina, appoggiata anche dai Sem Terra, non è la prima. Già nel 2006 occuparono un’altra impresa, la Aracruz, per denunciare che per far posto agli eucalipti non solo la veghttp://www.blogger.com/img/gl.link.gifetazione nativa era stata eliminata, ma migliaia di membri di comunità indigene e di piccoli coltivatori erano stati espulsi dalle loro terre. Un’altra impresa, brasiliana solo di facciata e dietro la quale si celano le grandi multinazionali finlandesi e svedesi del settore, come la Stora-Enso, la Azenglever, possiede 45.000 ettari ma vuole presto arrivare ai 100.000. La produzione di cellulosa è un vero affare, se è vero quello che denunciano i Sem Terra, che solo nel Río Grande do Sul, le multinazionali del settori hanno finanziato il governo statale con 300 milioni di dollari per potere operare. Il movimento mondiale in difesa dei boschi (www.wrm.org.uy) denuncia che in meno di mezzo secolo il consumo di carta nel mondo è più che raddoppiato. E che è raddoppiato in maniera diseguale se i finlandesi ne consumano 334 kg per anno (seguiti dagli statunitensi con 312) mentre nel Sud del mondo non si arriva ai venti kg. Quasi tutto l’aumento di consumo è dovuto agli imballaggi per le merci globalizzate. Il paradosso è che tutto ciò viene chiamato “riforestazione”, e gode perfino di ottima stampa.
Spero di non ritrovarmi a guardare di traverso caramelle all'eucalipto e finlandesi.
"Peter Berg will be directing a new big-budget Dune movie from Paramount. SFFMedia reports that 'although there were some doubts that they were going to get it,' the producers have secured the rights to the Dune novel from Frank Herbert's estate and are looking for writers to provide a screenplay that is true to the original text. Can't wait!"
Certo e' che il primo film, diretto da Lynch nonchè mio coetaneo, sara' difficile davvero da superare, ma rimane il fatto che sono davvero curiosa di vederlo :)
Speriamo sia realmente true to the original text ;)
L’equilibrista gioca con la gravità dei sogni che ha nell’anima Fai volare in alto tutto e non temer di non saper riprenderlo Prendi i tuoi misteri e lanciali tra mille torce, illumina Danzo sulla corda che mi tendi con i tuoi occhi elastici Mai silenzio Mai…
Tutti i muri del camerino erano coperti di arazzi sulle mie imprese di baseball, intessuti in oro e coperti di pietre preziose.
Su un arazzo decapitavo un lanciatore con una palla tesa. Un altro rappresentava un gruppo di avversari in piedi intorno a un enorme buco tra la seconda e la terza base. Non l'hanno mai trovata quella palla. Un altro ancora mi mostrava mentre ricevevo una vassoiata di pietre preziose da Nabucodonosor, per aver finito la stagione 596 a.C. con ottocentonovanta battute.
"Che prendi?" disse.
"Solo una birra" dissi.
"E' meglio se te la bevi in fretta" disse il barista. "Ci sta che i giapponesi arrivino prima di sera". Per qualche ragione pensò fosse molto buffo e rise a crepapelle per la "battuta".
"I giapponesi amano la birra" aggiunse, continuando a ridere. "Berranno fino all'ultima goccia della California quando arrivano".
[...]
"Lascia perdere la birra" dissi al barista prima di alzarmi dallo sgabello e dirigermi verso la porta. Erano mesi che non mi facevo una birra e non me la volevo far rovinare da un assurdo barista.
Il collo dello chaffeur rimase tranquillo mentre attraversava San Francisco diretto al Golden Gate. Intuivo che quel collo avrebbe potuto creare problemi in futuro. Cercai di figurarmi cosa potesse accadere se incrociavi quel collo. L'idea non mi piaceva affatto. Mi sarei tenuto sul lato buono del collo. Io e quel collo saremmo stati amici fraterni se l'avessi preso per il verso giusto.
Al collo non piaceva la parola champagne.
In futuro avrei evitato molto attentamente quella parola.
Al collo piaceva la parola bourbon, per cui quella era una parola che avrebbe sentito nominare parecchio.
In cosa diavolo mi stavo cacciando?
"Come?" dissi, perchè in quel momento serviva assolutamente un come, nient'altro che un come sarebbe stato adeguato alla situazione.
"Voglio che rubi un cadavere dall'obitorio".
Non aggiunse altro.
I suoi occhi erano molto azzurri. Anche nella semioscurità della macchina si vedeva chiaramente l'azzurro.
Quegli occhi mi stavano fissando. Aspettavano una risposta.
Anche il collo aspettava.
"Certo" risposi. "Se la paga è interessante domattina le faccio trovare il cadavere di Abramo Lincoln sull'uscio di casa insieme al giornale."
Era esattamente quello che voleva sentirsi dire.
Anche il collo voleva sentirlo.
"Come suonano mille dollari?" chiese.
"Per mille dollari le porto il cimitero al completo."
L'editore sportivo mi aveva dato anche un anticipo di 300 dollari in contanti, la maggior parte dei quali era già stata spesa in droghe estremamente pesanti. Il baule della macchina pareva un laboratorio mobile della narcotici. Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di LSD super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un'intera galassia di pillole multicolori, eccitanti, calmanti, esilaranti... e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro e due dozzine di fiale di popper.
I vecchi elefanti si trascinano in cima alle colline per morire: i vecchi americani vanno in autostrada e guidano a morte sui loro macchinoni.
... Perchè dunque darsi disturbo di leggere i giornali, quando questo è tutto ciò che possono offrire? Agnew aveva ragione. La stampa è una congrega di checche crudeli. Il giornalismo non è una professione nè un mestiere. E' solo una modesta trappola per coglioni e sbandati - un falso portone sul retro della vita, una miserabile fossa biologica nelle grinfie degli ispettori edili, ma abbastanza profonda perchè un ubriacone ci si possa raggomitolare dentro e masturbarcisi come una scimmia nella gabbia.
Hunter S. Thompson - "Paura e disgusto a Las Vegas" (grazie a Domenico per avermelo prestato prima ancora di averlo letto :) )
Mi e' venuta fame. Cosi' ho preso dei cosi giapponesi che mi ha dato mia nonna oggi. Mangiandoli e chiedendomi se rischiassi o meno di morire non sapendo cosa stessi masticando in realta', ho sbirciato sulla (mono)confezione. Ma l'unica cosa scritta con caratteri dell'alfabeto latino e' il sito della casa produttrice.
fortunatamente hanno una versione (ridotta) in inglese, cosi' leggo e scopro che...
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Quindi ora, quello che mi chiedo e mi domando e mi chiedo e mi domando ancora e':
dove, la mia cara nonnina 90enne, avrà mai recuperato dei jappo-salatini che si vendono solo dall'altro capo del mondo?
Perchè dormire con una donna al fianco è l'arte più difficile. Unire il tuo sonno a quello della persona amata è un virtuosismo incommensurabile. E quando le incoscienze si uniranno in un unico grande sogno, solo allora l'arte sarà fatta. La cosa più difficile è dormire in due, abbracciati senza cadere, perchè il tonfo dell'uno si confonderebbe con quello dell'altro e sveglierebbe il sonno di entrambi.
E la abbracciò forte. Fino a farle uscire i sogni dal naso. E le braccia di lei smisero di essere stese e si strinsero al corpo di lui.
Lei già lo amava nel sonno.
Fare un passo avanti è dare la vita al movimento. E il passo indietro e' l'aborto dello spostamento.
Ci sono due tipi di persone: ci sono quelle che dormono, si svegliano e muoiono.
E ci sono quelle in equilibrio su questa vita di nulla.
C'è qualche cosa di sbagliato nell'amore C'è che quando finisce porta un grande dolore. Perchè quando un'amicizia muore non c'è questo spasimo che sa di tremenda condanna?
Sono in fissa coi Marlene Kuntz. quasi quasi vado a vederli. Chi viene?
Ma a tenerlo così abbracciato sulle mie ginocchia, a guardare quell'essere vivente piccolo e morbido dormire con una totale fiducia in me, mi sentii scaldare il cuore. Posai la mano sul suo petto, cercando il suo battito cardiaco. Era lieve e lontano. Però scandiva il tempo con impegno e assiduità, proprio come il mio.
da "L'uccello che girava le viti del mondo" - Haruki Murakami.
Inutile dirvi quanto io mi senta sempre piu' spesso un gatto.
"Nella letteratura classica russa, le lettere di solito venivano bruciate nel fuoco del camino nelle sere d'inverno. Non nelle mattine d'estate versandoci sopra olio per insalata. Ma in questo brutto mondo realistico, succedeva di bruciarle in un mattino d'agosto, fradici di sudore. C'erano cose per le quali non si poteva andare tanto per il sottile, al mondo. Cose che non potevano aspettare fino all'inverno."
da "L'uccello che girava le Viti del Mondo" - Haruki Murakami.
"Un posticino allegro, insomma, qualcosa come un libro di Kafka illustrato da Munch."
Stavo leggendo un pochetto de "L'uccello che girava le viti del mondo" del mio adorato Murakami, tra una architettura SPARC e un chip JVM (mi ci voleva una pausa) e mi sono imbattuta in questa frase che oggi mi sembra decisamente appropriata... (Wick, tra l'altro, mi fa molto te quella citazione)